Il nuovo parroco don Stefano Silipigni, tra sabato 1 e domenica 2 dicembre, ha fatto il suo ingresso ufficiale in ciascuna delle quattro parrocchie: Gazzada, Schianno, Lozza e Morazzone
Il nuovo parroco don Stefano Silipigni, tra sabato 1 e domenica 2 dicembre, ha fatto il suo ingresso ufficiale in ciascuna delle quattro parrocchie ( Gazzada, Schianno, Lozza e Morazzone) di cui l’arcivescovo Mario Delpini gli ha affidato la cura.
Sono state cerimonie solenni eppure semplici, che hanno messo in evidenza come in questi tre mesi di primi contatti senza il crisma dell’ufficialità – una sorta di fidanzamento – tra il neo parroco e la sua comunità pastorale sia nato un certo feeling, sia cresciuta una simpatia autentica, sulla scorta del Vangelo, fonte inesauribile di Luce per chi non si accontenta di parole e sentimenti di pancia o banali.
Nell’omelia, che ha visto al centro della riflessione, la vita e l’opera del Santo vescovo Ambrogio, il creatore del rito ambrosiano che ancora caratterizza la Chiesa di Milano, don Stefano si è trattenuto non poco sulle difficoltà che il vescovo Ambrogio dovette superare in quel IV secolo che vide l’esplodere della crisi dell’impero e con essa aumentare la povertà, l’insicurezza dei confini. Ambrogio aveva piena consapevolezza che il cristianesimo, prendendo il posto del paganesimo avrebbe potuto salvare l’eredità culturale dell’impero.
Mi ha stupito leggere – l’ho fatto incuriosito dall’omelia di don Stefano – cosa scriveva Ambrogio in quegli anni di crisi e leggendo mi è capitato di imbattermi in concetti, come il “bene comune” per il quale vale la pena lottare anche oggi:
“«La terra è stata creata come un bene comune per tutti, per i ricchi e per i poveri: perché, o ricchi, vi arrogate un diritto esclusivo sul suolo? […] Tu [ricco] non dai del tuo al povero [quando fai la carità], ma gli rendi il suo; infatti la proprietà comune, che è stata data in uso a tutti, tu solo la usi.»
E proprio alle immense difficoltà che Ambrogio incontrò nella costruzione della Chiesa di Milano. io penso che don Stefano facesse esplicito riferimento mentre, nell’omelia, richiamava quanto aveva scritto sulla lettera di auguri e benedizione per il prossimo Natale:
“Crediamo che la costruzione di una Comunità ci spingerà a vivere quei valori che il Vangelo ci ha sempre proposto ma che troppe volte il contesto che viviamo ci scoraggia o ci sconsiglia di praticare in nome di un egoismo dettato dalla paura che nasce quando allontaniamo Dio dalla nostra vita.
Crediamo che per costruire una Comunità secondo lo stile che il Signore propone a chi crede in Lui, occorra riscoprire che
-il rispetto è più dignitoso che l’arroganza,
-la valorizzazione reciproca è più arricchente che la svalutazione del diverso,
-la collaborazione e la condivisione sono più intelligenti dell’individualismo,
-l’apertura verso l’altro è il riconoscimento che siamo tutti figli di Dio,
-la pazienza, il perdono, l’accoglienza, il prendersi cura dell’altro, … sono valori meravigliosi che il Vangelo ci propone e che la costituzione della nuova Comunità pastorale ci darà l’occasione di poter vivere
-se vorremo camminare insieme,
-se vorremo essere segno reale di speranza,
-se vorremo testimoniare che vivere come Gesù è la nostra salvezza”.
La cerimonia religiosa si è conclusa con la foto di rito, come in famiglia, e poi nel cortile e nel salone parrocchiale, con un buon bicchiere di vin brulè che ci ha scaldato le membra dopo che don Stefano ci aveva scaldato il cuore.
Grazie don Stefano, sono certo che i volontari Caritas le saranno vicini, ed io con loro, insieme agli ultimi che il Vangelo predilige.