L'innesto - Don Fabio Stevenazzi
Padre Guido sfreccia a bordo della sua “scassona”, forse un po' troppo velocemente, sul piazzale sterrato davanti alla canonica di Kalongo. C’è un'urgenza che incombe: la prima Messa d'orario della domenica, al mattino presto, l'ha celebrata, ma il piano di lavoro della giornata è appena iniziato: è atteso altrove.
Al più presto, prima del tramonto, deve raggiungere almeno due o tre villaggi della sterminata parrocchia a lui affidata: “il mattino ha l’oro in bocca” - si dice dalle sue parti nella lontana Italia - e chissà quanta gente Padre guido deve confessare in ciascuno di essi, dove, nonostante la buona volontà, non riesce a mettere piede da sei mesi…
Ma come fare di più, dato che le comunità cattoliche che deve visitare quasi da solo durante l’anno solare sono sessantasette?
Meno male che in ognuno di quei villaggi, ciascuno dei quali dotato di una cappella in muratura – cosa non comune nelle zone rurali della sterminata arcidiocesi di Gulu -, troverà uno o due catechisti o catechiste iperorganizzati, che in sua assenza radunano ogni domenica la loro comunità, annunciano la Parola, preparano ai Sacramenti e pure battezzano, e che oggi gli faranno trovare la loro chiesetta spazzata e piena di fiori, l’altare apparecchiato, la candela accesa e pure i coristi in alta uniforme, cioè con una maglietta o un pareo diversi da quelli usati durante il duro lavoro, in campagna.
Del resto, la congregazione Comboniana ha lavorato sodo, nei 90 anni di presenza in quelle terre, e la sua è ormai l’ultima parrocchia rurale ancora affidata ad un missionario straniero: la “plantatio ecclesiae” è ormai quasi finita, ed il clero diocesano locale abbastanza ben formato e numeroso, per andare avanti da solo. Per i Comboniani è quasi tempo di andare altrove, ad annunciare il Vangelo a nuovi amici, che non sanno ancora di essere già figli di Dio!
Lontani quei tempi, in cui aveva deciso di partire con la pretesa piantare nuova vita in terra arida, per poi scoprire che ad attenderlo c’erano già fratelli e sorelle ben disposti ad assorbire l’Annuncio e ad accogliere lui perché si sentisse pian piano a casa, consapevoli che accogliendo lui avrebbero accolto Chi da sempre stava bussando alla porta del loro cuore … Lo Spirito, che aveva attirato lui in queste terre lontane, lo aveva preceduto: anche quella gente ne era stata attirata, sedotta e preparata all’incontro col Cristo!
La casa… qual è ormai la sua casa? Padre Guido ormai si sente più ugandese che italiano, o meglio: né ugandese né italiano, perché ha capito che lui non è “il padrone” di un campo, ma solo uno dei tanti contadini chiamati a lavorarlo, ed “il campo è il mondo”. Padre Guido era venuto qui per piantare la vita, ma in realtà è stato sopraffatto dalla vita che già c’era, magari nella forma del seme nascosto, ma che già c’era, e da cui ha attinto tanta linfa; egli ormai si sente più che altro come un innesto.
Padre Guido ha 93 anni e da tempo ha deciso che in Italia non tornerà: ormai ha messo radici qui, fra questa gente che lo aspetta arrivare nel nome del Signore.
Tante sono ancora le sfide, a cominciare da quelle immediate che sono questa strada accidentata e questa frizione che inizia a grattare, ma in fondo, ciò che ormai conta, è solo riconoscere una straordinaria fortuna: i suoi occhi terreni possono già contemplare la messe che biondeggia, il seme germinato, i frutti quasi maturi che fanno già bella mostra di sé fra le fronde.